Qualcuno scriveva che il futuro del ciclismo è l'Africa. Aggiornamento. Il presente del ciclismo è l'Africa e per capirlo è sufficiente porsi davanti a questa foto, in Eritrea, scattata qualche giorno fa, durante una corsa, tra la folla oceanica. Il ciclismo africano mi ricorda, quello italiano dei primi del '900, quello che i nostri corridori, poveri, contadini, disoccupati, muratori, che per sbarcare il lunario, vinti dalla passione, correvano con la forza della disperazione, nella polvere, per un riscatto individuale e sociale, in condizioni tecniche, disperate, anzi disumane. Per questo lo chiamavano il ciclismo eroico. Ebbene il ciclismo che oggi corrono gli africani è identico, per quanto riguarda le motivazioni dei corridori. E se oggi, alcuni corridori prof hanno perso le "palle" e perdono più tempo, a farsi i selfie, che a pedalare seriamente, buttando il cosiddetto "sangue sui pedali", bè, sarebbe interessante investire invece, sui ciclisti africani, che magari, non vinceranno subito, il Giro, il Tour o la Vuelta, ma almeno ci emozioneranno, con la forza della semplicità e la voglia di riscatto che motiva più di un preparatore atletico e di un ciclo computer satellitare. La fame è la chiave di volta, anche del vero sport, quello autentico, che nasce dalla strada, tra i figli del popolo, nati nella polvere, senza un futuro. Del resto, la bicicletta cambia la vita. Per questo mi rivolgo a chi ha nel cuore, le sorti del ciclismo: riscoprite le radici del ciclismo; investite sui corridori africani, come fate, con quelli sudamericani. Del resto c'è un precedente, quello del team sudafricano MTN Qhubeka, che fine all'anno scorso, annoverava tra le sue fila, prevalentemente corridori africani, d'ogni parte del continente. Un team che ha dato visibilità al continente nero, con la licenza professional continental, e che quest'anno correrà con il nome Dimension Data, con la licenza UCI World Tour. In origine il team nacque nell'ambito del progetto umanitario Qhubeka, che dona biciclette ai bambini delle comunità rurali prive di mezzi di trasporto in cambio di un albero piantato o di un terreno coltivato (se vuoi saperne di più sul progetto Qhubeka, leggi un mio post di qualche anno fa CLICCA QUI). Dunque, la parola chiave del ciclismo moderno, è motivare, riscoprendo le radici del ciclismo, o ancor meglio, è Qhubeka, che in africano, significa, progredire, andare avanti sulla strada giusta, quella che porta al futuro. Voglio concludere con le parole di un proverbio africano: "l'abbondanza sta ferma, la fame è vagabonda".Saluti ciclistici.
Ringrazio pubblicamente l'autorevole giornalista della Gazzetta dello sport, Ciro Scognamiglio e l'organizzazione mondiale Qhubeka per avere apprezzato questo post su Twitter.
Claudio, Claudio. Post visionario, concordo su tutto. E' esattamente come scrivi tu. Il ciclismo, senza identificazione nella fatica bestiale, muore. Ti rendi conto che certi arrivi delle grandi corse a tappe non si fanno perchè in quel luogo non c'è spazio per il camion del podio? E' questo il dramma del ciclismo dei fighetti del selfie di cui parli tu al quale noi dobbiamo chinare il capo. La fotografia che tu posti cancella tutto un mondo e riapre allo spirito originale di questo sport: una linea bianca sulla strada, fatta magari col gesso, come quando eravamo bambini e si correva nelle vie del paese. Basta quella, il ciclismo è solo quella riga. Il resto è fuffa.
RispondiEliminaTi ringrazio Alessandro. Il tuo commento è molto bello e lo considero la Postfazione del mio post; mi emoziona; quella "linea bianca" mi ricorda l'infanzia e la mia prima bicicletta! Saluti ciclistici.
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