venerdì 11 gennaio 2013

"L'Anticavallo. Sulle strade del Tour e del Giro" di Gianni Brera

Come ebbe modo di scrivere Gianni Mura, faccio parte dei Senzabrera, cioè di coloro che stimano il compianto giornalista Gianni Brera. La sua unica e straordinaria penna, ci ha regalato, perle di un alta ed ineguagliabile scrittura, che si pone nel firmamento, non solo del giornalismo, ma anche della letteratura d'ogni tempo. Dopo avere letto e recensito, Coppi e il diavolo, è la volta di altro testo "sacro" di Gianni Brera, "L'Anticavallo. Sulle strade del Tour e del Giro" pagine 288, pubblicato nel 1997 dall'editore Baldini&Castoldi.  L'Anticavallo, è il modo in cui Gianni Brera definiva la bicicletta, quella dei poveri, che nei primi decenni del 900, grazie proprio a questo semplice mezzo di trasporto, riuscirono a recuperare la stessa mobilità che i nobili avevano con il cavallo. Insomma la bicicletta, come mezzo di emancipazione. Ma la bicicletta, che Brera seppe narrare, fu anche il mezzo con il quale i campioni,  seppero scrivere pagine di epico ciclismo. In fondo la bicicletta rende tutti eguali. Brera scriveva che " la diffusione della bicicletta ha coinciso con le prime sindacali dei poveri con l'evoluzione del mio paese da agricolo a industriale." E Brera la chiamò " macchina".  Il libro muove proprio da questa premessa: lo sport del ciclismo nasceva  nel 1900 e si affermava, come una via di ascesa sociale, in quanto un corridore portava a casa più soldi di un ragioniere e il campione poteva diventare persino ricco. Ma il ciclismo di quegli anni, era soprattutto eroico. E i suoi protagonisti avevano una tempra e un coraggio assolutamente fuori dal comune. Giuseppe Frattini, medico della carovana del Giro d'Italia del 1956, scriveva sulla Gazzetta dello Sport, a proposito del velocista Miguel Poblet, che egli veniva fuori dalla schiera degli affamati che " dalle asprezze della vita infantile hanno tratto quel tanto di sprint vitale che li fa emergere nel più duro e spietato degli sport" e aggiunse " Infanzia e adolescenza trascorse in ambienti pieni di agi e tra famiglie dalla vita agile e molle non costituiscono la migliore premessa per una salda formazione organica e psichica, atta a superare quanto di selvaggio e primitivo contiene un organismo veramente atletico. Saper soffrire per dominare la frollezza naturale è dote di lenta crogiuolazione in ambiente adatto."  L'Anticavallo di Brera lo definisco un romanzo di cronaca sportiva. Non è facile  commentare una corsa ciclistica, ma egli riuscì a farlo, come nessun'altro. Nel libro ha donato agli appassionati, bellissime pagine delle cronaca del Giro d'Italia del 1959, vinto da Gimondi e del Tour de France del 1949, vinto dal grande Fausto Coppi.  Sono appunti presi e  stilizzati in una prosa romanzesca, dal valore letterario assoluto, che ritengo pagine di letteratura italiana, di rara bellezza, considerato, l'argomento difficile e complesso. Le parole scritte da Brera vanno prima decantate, come un buon vino, e poi lette e pronunciate lentamente, fino ad apprezzarne il colore , le flessioni, la bellezza e la forza. Appunti, che Brera, prendeva durante le tappe, mentre seguiva la corsa a bordo di un auto; il suo taccuino egli lo definiva come " questa sconnessa cambiale avvallata dalla memoria". In queste pagine di minuziosa ed elegante cronaca, impreziosite da neologismi, che spesso sono entrati nel lessico comune, Brera descrive le vicende della competizione, con novizia di particolari, ma anche tutto quello che gli capitava di cogliere in quelle giornate intense, come un paesaggio, un aneddoto, un emozione, che seppe catturare e rendere parola, sulle piccole pagine del suo taccuino; una volta rientrato in albergo, egli le trasformò in mirabili e complesse pagine di letteratura sportiva ( questo è un mio neologismo), spingendo i tasti della sua Olivetti 30. Nulla gli sfuggiva, anche la monotonia delle lunghe tappe di pianura, che seppe rendere vive, raccontandole e persino impreziosendole con perle di cultura, non solo sportiva. In quelle pagine egli seppe raccontare, i gesti dei campioni, ma anche dei loro gregari. Tutto rese magico perchè egli riteneva che " Misteriosa è la simbiosi uomo e bicicletta." Un mestiere, quello del corridore ciclista, che comunque assurgeva a miglioramento sociale e che se è anche duro, era sempre meglio di lavorare. Tratta  di Coppi, Bartali,  Gimondi, Merckx, Binda, Moser e di altri campioni, in una retrospettiva e del tutto inusuale. Non possono sfuggire aneddoti, che la dicevano lunga, delle gerarchie all'interno della squadra, dove il capitano, esigeva sudditanza da parte dei gregari, incitati da urla selvagge e dalle imprecazioni dei loro leader. Tra tutti non sfugge quello che vide coinvolti Moser e Patrick Sercu. Moser venne colto, durante una tappa, da un terribile attacco di dissenteria. Il suo berretto, pieno di liquame colitico, era finito sulla faccia di Sercu, che cercava di tenere il più possibile le ruote del campione italiano. Quel berretto che Moser utilizzò per pulirsi dal disastroso "torcibudella". Sercu fu allora costretto ad allungare in salita, per cercare una fontanella per togliersi di dosso i resti del liquame rimasto appiccicato sul viso. Quell'allungo micidiale, però ebbe l'effetto di consumare le ultime energie di Moser, determinando così la vittoria di tappa di un corridore americano. Altri episodi, non sfuggirono alla sua cronaca partecipata, condita da una prosa elegante,che seppe riempire momenti di tragedia, che purtroppo, ebbero a ripetersi, per le stesse circostanze molti anni dopo e che videro coinvolti, Casartelli e Wouter Weylandt. In quella edizione del '59 del Giro, l'ultimo a cui egli venne invitato, il triste epilogo toccò al corridore ciclista Juan Manuel Santiesteban, il quale affrettandosi a rientrare dopo avere atteso un compagno in difficoltà, lungo una discesa, presa ad una velocità elevata e forse non controllata; quel "buon operaio che stava compiendo il proprio dovere", trovò la morte schiantandosi contro un guardrail, che gli scoperchiò il cranio. Brera lo ricorda come una figura magra e triste, che si sentiva addosso " la condanna di un infelice destino", di chi aveva lasciato un misero villaggio in Spagna per riscattare la proprio condizione di povero. E le parole usate da Brera nel descrivere lo sgomento degli altri corridori, al loro passaggio, sul luogo dello schianto venne descritta con struggente prosa: " Negli occhi dei corridori si leggono pena e sgomento, fors'anche il rimorso di sentirsi per una volta scampati ad un destino sempre in agguato. Il rischio affrontato per gioco è talora insopportabile condanna dei poveri, ma ribellarsi è inutile." Quel ciclismo che appassionava Brera, tanto da definirlo " una reliquia di immani fatiche" e che aveva trovato in Fausto Coppi il suo corridore preferito.
Un libro di assoluto pregio dedicato non solo ai campioni del ciclismo, ma anche alla " Favolosa astronave dei poveri, la casta bicicletta ha fatto e fa ancora rivoluzione."  La bicicletta, strumento umile che ha  la forza di emozionare chiunque; come quella marchesa che invitata ad una pedalata lungo un viale, definì con una battuta in dialetto milanese " in mezz ai mè gamb, de rob che stan minga in pèe de per lor ghe ne ven migra." Nelle pagine di questo libro, da collezionare ad ogni costo, ma non solo questo del compianto giornalista lombardo, nato in un paese chiamato, San Zenone Po, non ci sono asettiche cronache, smodate da emozioni, e riempite da cifre insulse,come spesso si è abituati a leggere, ma espressioni di tale e rara bellezza letteraria, che indussero Marinoni nella prefazione al libro " Il Calciolinguaggio di Gianni Brera" , a ritenere che Brera, avesse " un pieno diritto di cittadinanza nella repubblica delle Lettere italiane". 
Sul filone del ciclismo, Brera ha scritto altri libri, come quello dedicato al campione Eberardo Pavese, dal titolo " Addio, Bicicletta." che spero di recensire presto, di una straordinaria forza; ricordò spesso tra le parole che intarsiano questa pergamena di sport, storia e cultura: "Ciascuno, su questa terra, vive l'infanzia che gli destinano."; e  quello dedicato nel 1955 a Tullio Campagnolo, il padre del marchio storico Campagnolo. Voglio dedicare alcune parole scritte nella pagine di quest'ultimo libro, al mio amico vicentino Vecchia: " Nascere a Vicenza è un privilegio che gli altri non sanno e forse non ammettono.......Io non so con precisione se Tullio Campagnolo abbia visto e capito la sua urbecula natia......certo è che dei superbi vicentini che hanno costruito la geniale città ha ritrovato bell'è fatto l'orgoglio, l'esaltante certezza di essere vocato a qualcosa di grande...."
Per questi libri e per tutto quello che ha scritto e ci ha lasciato, Giovanni Luigi Brera, detto Gianni, che sarebbe diventato Gioannbrerafucarlo, nato l'8 settembre 1919 a San Zenone al Po, a Pavia e morto a pochi chilometri di distanza, a Codogno, in un incidente stradale, il 19 dicembre 1992, anch'io mi definisco un "Senzabrera", come il giornalista Gianni Mura, ha definito coloro che sono rimasti affezionati alle sue opere, le stesse che nelle nostre università continuano a far scrivere tesi di laurea su di lui. Ciao Gianni.


2 commenti:

  1. Una recensione minuziosa ed appassasionante. Complimenti Claudio, nel tuo scritto raffiora la tua passione per la bici e dimostra che sei un lettore attento che riesce a cogliere ogni sfumatura dalle parole.
    Grazie per questa tua recensione, non conoscevo Gianni Brera ma ora non vedo l'ora di leggerlo.

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